Esiste un approccio di genere nei percorsi di riabilitazione?

Il genere come fattore determinante per garantire alle persone, maschio o femmina, la tutela del proprio benessere ed il migliore approccio clinico, diagnostico e terapeutico-riabilitativo. Questa la premessa dell’evento formativo che si è tenuto di recente a Milano dal titolo “Medicina di Genere: dai percorsi evolutivi alla pratica clinica” organizzato in collaborazione con l’Osservatorio Nazionale sulla Salute della Donna (ONDA) e dal gruppo KOS Care.
Una giornata di riflessione e di confronto tra esperti di diverse parti d’Italia sulla possibilità che la dimensione di genere diventi uno strumento di programmazione sanitaria e di pratica clinica, a garanzia di una medicina sempre più personalizzata basata sulla centralità del paziente. Se in una prima parte introduttiva il convegno ha fatto il punto sui percorsi evolutivi della medicina di genere, in una seconda parte sono state approfondite alcune tematiche in ambito psichiatrico, cardiologico e anche riabilitativo. «La riabilitazione è un complesso processo di soluzione di problemi e di educazione nel corso della quale si porta una persona con disabilità a raggiungere il miglior livello di autonomia possibile sul piano fisico, funzionale, sociale, intellettivo e relazionale, con la minor restrizione delle sue scelte di vita, pur nei limiti della menomazione residua», spiega Donatella Saviola Medico Neurologo, Responsabile Area Riabilitazione Età Evolutiva e Servizio di Terapia Occupazionale, Centro Cardinal Ferrari, Santo Stefano Riabilitazione, intervenuta al convegno con una relazione dal titolo:Esiste un approccio di genere nei percorsi di riabilitazione?”. Il Centro Cardinal Ferrari è un ospedale specializzato nella riabilitazione delle gravi cerebrolesioni acquisite.  Il termine “Grave Cerebrolesione Acquisita” (GCA) include una varietà di lesioni cerebrali acute di origine traumatica e non traumatica caratterizzate dalla presenza all’esordio di un periodo di coma (Glasgow Coma Scale  ≤8) e dalla presenza contemporanea di deficit di natura sensoriale, motoria, cognitivo e comportamentale.   Le GCA non traumatiche sono secondarie a tumori cerebrali, anossia, emorragie e severe ischemie cerebrali, infezioni (encefaliti) ed encefalopatie tossico-metaboliche.
Quali sono le problematiche di genere che si riscontrano nelle gravi cerebrolesioni?
«Nelle persone che tornano a vita attiva dopo evento disabilitante emergono priorità diverse di partecipazione: nei maschi l’obiettivo principale è il ritorno a lavoro full-time, mentre per le femmine la priorità è il recupero della gestione familiare (in rapporto al numero dei figli) e, poi, un lavoro part time».
Come incide la medicina di genere nei percorsi riabilitativi?
«I programmi di terapia occupazionale e vocational therapy devono tenere conto delle variabili legate alle priorità di vita, per offrire programmi riabilitativi coerenti con le aspettative dei pazienti. Si parte sempre dall’individuazione delle abilità deficitarie del paziente attraverso sostanzialmente due tipi di approccio: un approccio di recupero, con sviluppo e ripristino di attività preesistenti; un approccio di compenso, con modifica o adattamento dell’ambiente e delle attività per migliorare le abilità residue».
Può fare un esempio di un intervento personalizzato?
«Ne cito uno. Il caso di una paziente con grave trauma cranico accaduto a diciassette anni. Una ragazza con vari disturbi: deficit di memoria e di programmazione, aprassia e anosognosia. Siamo partiti dalla preparazione di una torta in autonomia, quindi in un setting terapeutico legato alla cucina. Il suo percorso è proseguito con attività di terapia occupazionale mirate al recupero di autonomia e sicurezza, fino al conseguimento della maturità classica a 19 anni, l’iscrizione all’Università e ora l’avvio di un percorso di valutazione/riabilitazione per la guida sicura dell’auto».  
Dai dati presentati al convegno, qual è la sintesi che può fare per tracciare un quadro della medicina di genere in ambito riabilitativo?
«Partendo dal nostro ambito di lavoro, nel tempo si è modificata l’eziologia nelle persone con GCA ricoverate in riabilitazione intensiva ma resta invariata la forte prevalenza nell’incidenza dei pazienti di sesso maschile. A parità di livello di compromissione funzionale e di età, però i soggetti di sesso femminile hanno una maggiore aspettativa di vita dopo GCA. Interessante si rivela la prevalenza di donne nel team riabilitativo, un trend che rivela un fenomeno femminilizzazione delle risorse umane in questo ambito professionale. Un dato che si conferma, infine, è quello legato all’accudimento del paziente, soprattutto se con grave disabilità, e che vede coinvolte in gran parte le donne. Analizzando la composizione di un piccolo campione italiano di care givers di persone con GCA emerge che il 74,5 % è femmina (madri, mogli, sorelle); il 26,5 %  maschio (padri, fratelli, altri parenti). Un aspetto interessante ma che apre un altro delicato scenario, quello della presa in carico del care giver nel percorso riabilitativo, considerando il ruolo strategico di questa figura per il recupero del paziente ed il suo rientro a domicilio».

 

 

 

 

 

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2018-07-16