Stato vegetativo, può sentirmi?

Una grave cerebrolesione acquisita (ad esempio per forte trauma cerebrale, anossia conseguente ad arresto cardio-circolatorio o per grave emorragia o ictus) può avere come esito una condizione di “disordine di coscienza”. Di seguito, la differenza tra stato vegetativo, coma e stato di minima coscienza.

Coma. È lo stato più grave, in cui non vi è alcuna attività cerebrale che varia nel tempo e nessun livello di coscienza. Il corpo è come senza vita e gli occhi sono chiusi. È una condizione che si mantiene per un breve tempo. Poi, se non si muore, si passa in uno degli stati seguenti.

Stato vegetativo. La maggior parte dei pazienti sopravvissuti passano a questa condizione, in cui il movimento degli occhi, spontaneo o generato da uno stimolo doloroso, indica una parvenza di vigilanza. Che è ben diversa da una capacità di coscienza.

Stato di minima coscienza. È la condizione intermedia, nella quale si possono riconoscere comportamenti saltuari di coscienza, anche se la persona non ha alcuna consapevolezza di sé nel mondo e neppure capacità di autogestione o di esprimere i propri bisogni. Ancora una volta gli occhi sono il principale indicatore, quando si fissano nello sguardo degli altri o ne seguono i movimenti. Possono comparire anche alcuni movimenti degli arti.

Cosa posso fare per stimolarlo? Può sentirmi? *

Allo stato attuale delle conoscenze scientifiche non vi sono prove dell’utilità di effettuare qualsiasi forma di stimolazione sensoriale ad un paziente in stato di coma o di stato vegetativo profondo, né del loro effetto negativo. Vale, perciò, la regola del “buon senso”, cioè evitare di fare tutto quello che non sia ritenuto utile. Ovviamente la questione diventa più complessa quando ci si trova di fronte ad un paziente che inizia ad avere i primi segni di contatto, anche se incostanti ed esauribili. Un paziente in fase di risveglio è un soggetto molto fragile, con scarse risorse attentive; fa fatica a localizzare uno stimolo, sia esso un suono, una voce o un’immagine in movimento. E’ un paziente facilmente distraibile e la sua attenzione si esaurisce in pochi minuti; può mostrare una vaga consapevolezza di sé e del proprio corpo, manifestando risposte a situazioni di disagio (ad esempio tirarsi il catetere vescicale o il sondino naso-gastrico). Il dolore e la presenza di devices possono rappresentare fonti di disturbo, che influiscono negativamente sulle capacità attentive. Occorre cercare di creare intorno al paziente un ambiente tranquillo, silenzioso e di ridurre al minimo le fonti di fastidio. In tale contesto si potranno proporre brevi stimolazioni intervallate da pause che prediligono sia il contatto fisico che la voce come mezzi di comunicazione con il paziente. Fondamentale è che vi sia un’interazione reale con il paziente, motivo per cui, soprattutto nelle fasi iniziali, risulta fondamentale il ruolo del familiare. Il familiare deve essere inserito nel team riabilitativo come parte attiva, in quanto le sue conoscenze del paziente e la sua valenza affettiva, se ben gestite dagli operatori sanitari, possono costituire un reale aiuto. Ai familiari dei pazienti in stato vegetativo (SV) o stato di minima coscienza (SMC) va spiegato, che è necessario parlare con il proprio caro con un tono di voce normale; non serve a nulla urlare. Quando si fa visita ad un paziente in SV/SMC bisogna informarlo di quanti visitatori siano presenti in stanza (meglio uno o due alla volta) all’atto della visita e specificare l’orario di visita ed il momento della giornata; va sempre detto cosa stiamo per fare quando ci avviciniamo al soggetto; occorre essere brevi e semplici nel formulare frasi e domande.E’ possibile anche spiegare al paziente il motivo per cui si trova in ospedale; utile portare oggetti personali e foto dei familiari o di amici. Bisogna aver pazienza nell’aspettare una risposta e fare delle pause fra una stimolazione e l’altra, senza perdersi d’animo se questa risposta non c’è. 

* testo tratto dalla rubrica Domande frequenti, rivista In cammino, a cura di Chiara Bertolino, neurologa del Centro Cardinal Ferrari 

Il risveglio *

Emergere dal coma è un evento raro ma possibile. Si verifica quanto la persona è in “stato di minima coscienza”. Il primi segnali del risveglio sono spesso intercettati dal caregiver, la persona che più si prende cura del malato, che con lui ha scambi affettuosi. Per questo è fondamentale una buona relazione tra il personale sanitario e la famiglia, che in questa fase si consolida anche con confronti al letto del paziente, da parte di tutti i professionisti coinvolti nel progetto di cura e riabilitazione: logopedista, fisioterapista, neurologo e altri. La presa in carico tempestiva del paziente, che mostra i primi segni di risveglio, da parte di un team multi-professionale specializzato favorisce sicuramente il recupero ottimale. Il progetto riabilitativo deve essere fortemente personalizzato, visto che la maggior parte rimane in una condizione di grave disabilità.

Nei film si vedono risvegli improvvisi con persone in piena coscienza, ma nella realtà si tratta di un caso rarissimo. Il risveglio è invece un processo molto lento e tribolato, in cui i primi segni sono reazioni emotive e inseguimento visivo. Poi, piano piano, qualche consapevolezza dell’ambiente circostante e il porsi in uno stato di allerta ed attenzione quando si avvertono rumori particolari. In questa fase la persona è particolarmente agitata ed aggressiva, come accadrebbe a ognuno di noi che si svegliasse un mattino in una condizione e un luogo sconosciuti, senza ricordare il perché. Anche l’organismo risente di questo stato di sofferenza, mostrandosi nella maggior parte dei casi particolarmente fragile e in preda ad infezioni e complicanze.

Non esiste un farmaco che con certezza attivi il risveglio, così come non c’è una tecnica comprovata di stimolazione sensoriale che faciliti il riemergere della coscienza. In questa fase gli stimoli devono esser pochi e personalizzati, somministrati concedendo lunghe pause di riposo, per non aumentare il turbamento della persona che già si trova in una condizione di confusione e sofferenza.

Non c’è neppure una regola generalizzata di possibilità di risveglio ma è evidente che più tempo il paziente passa in stato di minima coscienza e minore è la probabilità di recupero. Il limite è fissato dalla comunità scientifica in 3 mesi quando il danno è anossico, cioè dovuto a mancanza di ossigeno, 6 mesi per emorragia cerebrale e 1 anno per trauma. Poi tutto può succedere, ma il risveglio tardivo è definito come evento statisticamente improbabile.

* dalla rubrica Il Medico risponde, in collaborazione con gli esperti del Gruppo Santo Stefano


2019-02-08