Risonanza Magnetica funzionale, quando eseguirla?
La Risonanza Magnetica funzionale (fMRI) è un esame strumentale che consente di visualizzare la risposta neuronale del cervello, individuando quali aree cerebrali si attivano durante l’esecuzione di un compito, per esempio muovere una mano, o dietro una serie di stimoli, visivi o sonori.
L'esame genera immagini del flusso ematico e dell’ossigenazione nei distretti encefalici analizzati e viene applicato in diversi campi. Nel caso delle gravi cerebrolesioni, la Risonanza Magnetica Funzionale ha dato il via ad una serie di studi sperimentali legati agli stati vegetativi. Secondo alcune ricerche, infatti, la Risonanza Magnetica Funzionale è in grado di rilevare segni di attività cerebrale cosciente anche nei pazienti incapaci di comunicare, per la gravità del danno motorio e incapacità di produzione verbale, aiutando quindi a verificare se soggetti che si trovano in apparente stato vegetativo hanno in realtà un livello minimo di coscienza.
In sintesi, se le tecniche tradizionali consentono di studiare l’anatomia del cervello e le lesioni strutturali , le tecniche di neuroimmagine come la fMRI permettono di studiare il cervello in azione, quindi di osservare le modificazioni delle regioni cerebrali in base allo stato di attivazione. Potrebbero essere quindi utili per migliorare le capacità diagnostiche per una corretta diagnosi differenziale tra pazienti in stato vegetativo e pazienti in stato di minima coscienza. Nel 2006, Adrian Owen del Medical Research Council di Cambridge, in Gran Bretagna, descrisse il caso di un paziente considerato in stato vegetativo che, sottoposto a fRMN, si è rivelato capace di rispondere mentalmente ad alcuni comandi dimostrando sia la presenza di attività corticale anche complessa (gli veniva chiesto di immaginare un’azione) sia la capacità di eseguire un ordine verbale e, pertanto, che il paziente non poteva per definizione essere in Stato Vegetativo.
Di fatto però questa metodica, sicuramente utile a livello sperimentale non costituisce la soluzione per un uso nella pratica clinica quotidiana, perché si tratta, tra l’altro, di un esame lungo e complesso che richiede l’assenza di movimenti involontari del paziente e la non necessità di manovre assistenziali, quali ad esempio la broncoaspirazione delle secrezioni bronchiali, durante la sua esecuzione.
Allo stato attuale delle conoscenze scientifiche lo standard riconosciuto per la valutazione dei disordini di coscienza resta una valutazione clinica esperta, ripetuta, eseguita dai membri del team multiprofessionale che ha in carico il paziente, che si avvale di scale specifiche come la come Recovery Scale Revised (CRS-R) e dell’aiuto dei familiari nell’interpretazione delle risposte attenute dal paziente. Alla valutazione clinica sempre più si stanno affiancando e dimostrando utili esami neurofisiologici, eseguibili anche al letto del paziente e facilmente ripetibili, quali l’elettroencefalogramma e i potenziali evocati.
Dalla rubrica Il Medico risponde, a cura del dott. Antonio De Tanti, direttore medico scientifico del Centro Carrdinal Ferrari
2018-05-14